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  • Immagine del redattoreAlberto Asero

Cura di sé come difesa dal mondo: sull'impatto esistenziale dell'idea medica moderna di morte*


We are such stuff

As dreams are made on, and our little life

Is rounded with a sleep.

(Shakespeare, The Tempest)





Non vi è dialogo sugli orizzonti personali di senso, meno che mai in sede di colloquio filosoficamente orientato, che possa prescindere dall’esplorazione dell’idea di morte che ciascuna persona abita. Pur oggi confinata in un foro interno difficilmente accessibile al confronto, quell’idea non ha infatti mai smesso, né mai potrà smettere, di regolare, in maniera più o meno cosciente, la forma generale dello stare al mondo di ciascuno. Guardare alla (e dalla) morte significa in ultima istanza abbracciare una vita intera con un colpo d’occhio, ma è anche il presupposto di ogni dir verace (Foucault, 1984) su, ed a, se stessi. Ogni biografia, ogni forma di vita va inscritta, pena la falsità, nel perimetro esistenziale disegnato da un modo di relazionarsi con la (propria) morte.


A partire almeno dal Seicento, un processo lungo secoli ha fatto della morte, anticamente e per definizione aliena alla medicina, un momento da questa non solo, in certa misura, scientificamente e tecnicamente dominato, ma anche informato sul piano ideologico. Chiaramente, questo non vuol dire né che l’idea di morte che in medicina prende forma sia completamente autoctona e impermeabile all’influenza di istanze esterne, né, in ogni caso, che la relazione fra medicina e immaginario (personale e collettivo) descriva un percorso a senso unico. Non va infatti mai perso di vista il fatto che la morte non è mai, neppure quando ad osservarla è il medico, un fenomeno esclusivamente biologico, bensì sempre anche una realtà intrisa di ineludibili istanze sociali e culturali, filosofiche e religiose – istanze, cioè, che valicano i confini della medicina e della stessa scienza – le cui radici affondano in, e al contempo nutrono, quel complesso sistema di risposte a domande essenziali ed urgenti di cui è fatta una cultura. Guardando solo al mondo occidentale ed alle medicine che ha prodotto, da Omero in avanti un leitmotiv sembrerebbe legare fra loro credenze e visioni, per altro verso lontanissime, intorno alla morte ed al morire: la morte è un destino che il medico pre-ippocratico legge nell’orizzonte capriccioso del divino, il medico ippocratico pronostica nelle lande semiotiche della corporeità, il medico cristiano prepara in vista della vita eterna, e il medico moderno dapprima esplora, quindi diagnostica e, infine, controlla; il tutto all’interno di una vita che si presenta però sempre (fino almeno al Settecento, come vedremo) integra ed integrata, alla quale la morte appartiene in un certo senso di diritto, pur calando questo diritto da fonti metafisiche e religiose di volta in volta assai diverse, ma comunque mai interamente, né prevalentemente, riconducibili alla medicina.


Un’idea puramente scientifica della morte, e della morte dell’essere umano in particolare, è una chimera: se la storia della morte è sempre, di necessità, la storia di un’idea, la storia di un’idea è sempre la culla di chi la abita. Dal momento, tuttavia, che la capacità di un qualsivoglia ambito del sapere di plasmare l’immaginario è direttamente proporzionale al grado di pervasività dell’ambito stesso nel tessuto sociale e nella vita delle persone di una certa epoca, e dal momento che la pervasività della medicina nelle società occidentali(zzate) d’oggi è paragonabile solo a quella delle religioni in altre epoche, èproprio alla voce dei medici che, prima e più che ad ogni altra, occorre prestare attenzione quando si tratti di ricostruire il perimetro dell’idea di morte che abitiamo. I binari lungo i quali corre il presente studio sono pertanto gli stessi che hanno orientato la ricerca antropologica di Laplantine intornoall’idea di malattia:

Riconosceremo un ruolo assai importante alla cultura (bio)medica per due ragioni. Da un lato perché detta cultura è diffusa e in larga misura dominante nella nostra società e non vi è rappresentazione della malattia che non si costruisca oggi a contatto con, e sotto l’influenza di, essa. D’altra parte perché ci sembra necessario mostrare che questa cultura, che pensa se stessa al riparo dall’immaginario e dal sociale, è in realtà ben lontana dalla neutralità che si attribuisce. Ogni discorso sulla malattia – e davvero non si vede perché quello del medico vi si sottrarrebbe –, lungi dall’essere fondato sulla raccolta di ‘dati’ (!), è il risultato di un lavoro di selezione e di elaborazione così come pure di una scelta teorica. […] non vi è comprensione [del medico], neppure la più ‘scientificamente neutra’, che sia integralmente scientifica, ossia scevra di rappresentazioni. (Laplantine, 1986, p. 22)

Ora, volendo ricostruire, sia pure per sommi capi, la formazione di un’idea moderna di morte in medicina, mi pare siaopportuno isolare due momenti cruciali, due testi – entrambi espressione, significativamente, dell’inquietudine scientifica francese dei secoli XVII e XVIII – che con grande lucidità plasmano la transizione verso un modo nuovo di intendere, appunto, la morte ed il morire: il primo testo è Les passions de l’âme di René Descartes, il secondo Recherches physiologiques sur la vie et la mort di Xavier Bichat.


1. Descartes e il divorzio metafisico fra anima e vita


Il pensiero medico moderno conserva della morte l’involucro metafisico e religioso che tradizionalmente la raffigura come exitus, come scissione di quell’unione misteriosa che lega un’anima ad un corpo, salvo ristrutturarne completamente il significato.


Nelle prime pagine di Les passions de l’âme, Descartes si premura di liberare il campo da un errore, a suo dire, “assai considerevole, nel qualemolti sono caduti”:

vedendo che tutti i corpi morti sono privi di calore e di movimento, si è immaginato che fosse l’assenza dell’anima a far cessare quel movimento e quel calore; e così si è creduto, senza ragione, che il nostro calore naturale e tutti i moti dei nostri corpi dipendessero dall’anima:laddove si sarebbe piuttosto dovuto pensare il contrario, ossia che l’anima non si assenta con la mortese non a causa del fatto che quel calore viene meno e che gli organi che servono a muovere il corpo si corrompono. […] il corpo di un uomo vivo differisce da quello di un uomo morto nello stessomodo in cui differisce un orologio o un qualunque altro artefatto automatico (ossia, qualunque altra macchina che si muova da sé) quando è integro e reca in sé il principio fisico dei movimenti in ordine ai quali è stato creato, con tutto il necessario per funzionare, dallo stesso orologio, o altra macchina, una volta che si sia guastatoe sia venuto meno il principio del suo movimento. (Descartes, 1649, p. 6-8)

Vi sono tre aspetti, in questo fondamentale passaggio, sui quali vorrei soffermarmi.

Il primo è che, guardata dal corpo, l’alterità ontologica assoluta di res cogitans e res extensa conduce anima e vita al divorzio. Non solo dal punto di vista metafisico, ma anche in base all’esperienza si deve concludere che è in errore chi ritenga che dall’anima dipende la vita del corpo: ciò che l’esperienza mostra è piuttosto il contrario, ossia che la macchina, in quanto tale, “simuove da sé” – che il corpo possiede la causa necessaria e sufficiente della propria vitalità. La vita non può dunque essere una prerogativa dell’anima, come ingenuamente si è creduto. Né la vita è una proprietà metafisicamente distinguibile dal corpo vivo: essa si presenta infatti all’osservatore attento come mera espressione del funzionamento dell’organismo stesso in quanto agglomerato di sub-entità anatomiche e relative funzioni e relazioni che fra loro si stabiliscono in modo gerarchico, organizzato, continuo ed autonomo. La vita è, in altri termini, una proprietà intrinseca della macchina. Invocare un principio vivificatore ulteriore rispetto al corpo, quale spiegazione dell’alterità empirica fra materia inerte e corpi vivi, equivale pertanto a moltiplicare gli enti senza necessità. Chiaramente, se l’anima non ha nulla a che fare con la vita del corpo, sarà estranea anche alla sua morte.


Il divorzio metafisico cartesiano segna una frattura storica profonda nel modo di pensare la morte. Prima del divorzio, l’anima, principio ma anche mistero della vita, rappresentava anche il garante supremo dell’unità profonda e totale, tanto sincronica quanto diacronica, della vita stessa. Quest’idea di totalità e semplicità è precisamente ciò che il meccanicismo porta al collasso. Il punto non è solo che la morte viene ridotta a necessità meramente naturale: il morire, persa quella semplicità che gli era propria quando succedeva nel momento impalpabile e indivisibile dell’exitus, conclusione di una biografia che narrava la storia di quell’unico vero io che è l’anima, si dissolve nel dinamismo scivoloso di un processo che frantuma la morte nel tempo e nello spazio – nel tempo, perché lo spegnersi delle funzioni vitali dell’organismo è graduale (non vi è “nessuna causa o malattia in grado di uccidere, sia pure con la massima rapidità, che non eserciti la sua forza in momenti divisibili nel tempo”, scriverà Lancisi; 1707, p. 13); nello spazio, perché la disgregazione dell’organismo si declina, come si scoprirà nei secoli a venire, in un’anarchia di morti parziali (“Vi è una vita latente dell’individuo così come vi è una vita latente degli organi isolati”, chiarirà D’Halluin; 1913, p. 408). Risolta nella res extensa, la morte per un verso diviene un fenomeno perfettamente osservabile e localizzabile, suscettibile di essere studiato scientificamente e (potenzialmente) controllato tecnicamente, ma per altro verso perde ogni consistenza, si fa irriconoscibile agli occhi del soggetto.


Il secondo aspetto della revisione del panorama metafisico sul quale poggia l’idea di morte che il frammento cartesiano mette in luce è l’inversione della relazione fra anima e corpo rispetto al morire. Se “la morte non è mai dovuta all’assenza dell’anima, bensì al fatto che qualcuna delle principali parti del corpo si corrompe”, la morte dell’essere umano può benissimo continuare ad essere pensata come venir meno dell’intima compresenza metafisica di un’anima e di un corpo, salvo però che la dipartita dell’anima, da causa diverrà conseguenza dello spegnersi della vita nell’organismo. Privata l’anima di ogni consistenza causale, il corpo si scopre così autore della propria morte; una morte che, tuttavia, in senso medico non lascia intravedere altro senso che la disgregazione funzionale dell’organismo. È l’organismo che, persa irreversibilmente la vitalità che gli è propria, diviene inospitale per l’anima; è il corpo a determinare, con la propria morte, l’exitus.


L’anima continua dunque a vivere nel e con il corpo, ma subordinatamente ad una vita che le è ormai aliena. Dal canto suo, la rappresentazione tradizionale della morte come exitus resiste solo in apparenza al cambio di paradigma: quello stesso dualismo che, per un verso, sembrerebbe garantirne la stabilità, ne indebolisce, per altro verso, la validità. È in seno a questa ambiguità che va formandosi la rappresentazione moderna della morte come destino naturale e immanente del corpo. Rappresentazione la cui ambiguità è dovuta al fatto di poggiare non già sull’invalidazione categorica, bensì (solo) sulla sottile devitalizzazione a prioridi ogni eventuale rivendicazione della priorità del discorso metafisico e religioso, reso al contempo tanto ammissibile di principio quanto ininfluente di fatto, su quello scientifico: si può benissimo credere che sia Dio a chiamare a sé un’anima quando sia giunto il tempo di lasciare questo mondo, ma dal momento che ciò nulla toglie al fatto che lo spegnersi della vita in un corpo obbedisce a leggi di meccanica trasparenza, diventa pensabile che alla stessa chiamata divina tocchi in sorte di dover in qualche modo sottostare al verdetto della materia.


Va da ultimo osservato che, radicalizzando la distanza metafisica fra res cogitans e res extensa, il divorzio metafisico cartesiano produce una duplicazione all’interno tanto del campo semantico quanto dell’esperienza della morte. Rispetto al campo semantico, la svolta meccanicista isola definitivamente, della morte, il significato medico da quello metafisico e religioso; salvo che, in un immaginario sempre più dominato dal discorso scientifico, quest’ultimo significato perderà progressivamente rilievo. Più densa di risvolti esistenziali è invece la duplicazione dell’esperienza della morte. La nuova scienza, il cui metodo ammette nello spazio della legittimità epistemologica solo i fenomeni pubblicamente osservabili, finisce per proiettare nell’immaginario la pubblica osservabilità quale criterio discriminante della realtà stessa. Ora, una caratteristica essenziale dell’idea di morte prima dell’avvento della scienza moderna era che la dimensione pubblica del morire non descriveva che un aspetto in certa misura secondario della realtà, in quanto riflesso e conseguenza di un accadere di ordine metafisico, permeabile perciò solo alla ragione o alla fede. Consumato il cambio di paradigma, tuttavia, la dimensione privata, in principio solo invisibile, si troverà sempre più relegata nel piano dell’irrealtà. Ed ecco che all’essere umano, che già sappiamo animato da una sola vita, quella del corpo, tocca in sorte di morire due morti, scisse ed incomunicabili: una organica e pubblica, testimoniata da fenomeni misurabili, ed una spirituale e privata che rinvia o al “dogma certificato dalla Religione” (Encyclopédie, 1751-65, p. 722) o a una qualche imperscrutabile e inesprimibile intimità del moribondo che sconfina nella superstizione.


Il terzo aspetto che vorrei richiamare è che l’anima, pur declassata da signora della vita ad inquilina del corpo, mantiene in apparenza saldo, ed anzi perfino rafforza, il suo ruolo di centro metafisico e psicologico della persona. Tuttavia, a differenza del corpo, che pur frammentandosi in sub-entità anatomico-funzionali non vedrà scemare la propria sostanzialità, l’anima si spoglierà invece assai presto della sua consistenza sostanziale, dapprima per convertirsi in mente, quindi per frammentarsi in stati mentali, in sub-agenzie (Di Francesco, 1998) neuropsicologicamente indipendenti guardando alle quali risulterà sempre più difficile intravedere l’ombra unificatrice di quel vero io dal quale l’inferenza originaria cartesiana estraeva la certezza dell’esistenza propria e del mondo, fatta salva la garanzia divina. Da Hume a Damasio, il dubbio che nel teatro della mente non vi sia spettatore alcuno punteggerà i secoli con inquietante insistenza.


2. Bichat e lo slittamento dell’idea di morte da destino immanente a sconfitta

Se con Descartes l’organismo imparava a vivere di vita propria e a morire di morte propria, da Bichat in avanti continuerà a vivere di vita propria salvo morire di una morte aliena. Le Recherches physiologiques sur la vie et la mort ci conducono nel cuore di una transizione cruciale rispetto alla formazione dell’idea di morte che oggi abitiamo. In apertura del trattato, il medico francese scrive:

Cerchiamo, in termini astratti, di definire cos’è la vita; troveremo la definizione, credo, in questo principio generale: la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte.

Il modo di esistere dei corpi viventi è tale per cui tutto ciò che li circonda tende a distruggerli. Su di essi agiscono incessantemente i corpi inorganici; ed essi stessi esercitano gli uni sugli altri e incessantemente un’azione; sicché soccomberebbero rapidamente se non vi fosse, in loro, un principio permanente di reazione. Questo principio è la vita stessa; sconosciuta quanto alla sua natura, non può essere apprezzata che attraverso i suoi fenomeni: orbene, il più generale di essi è l’alternanza costante di azione, ad opera dei corpi esterni, e di reazione, da parte del corpo vivo, alternanza le cui proporzioni variano al variare dell’età. (Bichat, 1805, p. 1)

La prima cosa che dobbiamo notare è che Bichat definisce la vita (in quanto fenomeno, beninteso) in funzione della morte, non viceversa. Chiaramente, ciò che si propone non è, come poeticamente aveva fatto Shakespeare, di inscrivere la vita fra due sonni. Piuttosto, quest’inversione conduce ad ampliare il campo visivo allo scopo di inaugurare un modo nuovo di guardare alla morte, non risolvibile nei termini canonici di mera “cessazione completa delle funzioni vitali” (Encyclpédie, 1751-65, p. 721), assenza definitiva ed irreversibile di ogni moto che deriva dall’esaurimento della forza vitale dell’organismo. Bichat si rende conto del fatto che questa visione della morte occulta un elemento decisivo per la comprensione della vita organica (e non solo), sicché, in seno alla ricerca scientifica, il rapporto fra vita e morte va ridisegnato tout court a livello tanto fisiologico quanto epistemologico. A livello fisiologico, la morte va ripensata nei termini di un tessuto di relazioni e forze, un processo che accompagna l’intero svolgersi della vita di un organismo e non solo il suo momento finale; un processo che attraversa la totalità dell’organismo e della vita e che, in qualche modo, imprime forma e direzione alle funzioni ed alle dinamiche dell’organismo stesso. A livello epistemologico, si tratta di mostrare l’insufficienza tanto dell’idea secondo cui è la morte a dover essere spiegata a partire dalla vita, quanto del presupposto secondo cui l’organismo è leggibile omettendo il riferimento al contesto in cui vive. Riconoscere la centralitàdella morte imprime un cambiamento decisivo nell’approccio scientifico, ma anche nella rappresentazione della morte.


Condizione di questa revisione è una cruciale, per quanto non apertamente dichiarata, distinzione fra due significati del termine “morte”. Sembra infatti intuire Bichat che intendere la morte in senso esclusivamente diacronico è riduttivo: la morte è qualcosa di più di quanto la (pur rassicurante) visione epicurea di antitesi della vita lasci intendere. Oltreché come stato, la morte va letta anche come agente, principio attivo (o sistema di principi attivi) di segno opposto rispetto alla vita ma a questa in ogni momento compresente. La morte (i suoi agenti) intrattiene un gioco perenne con l’organismo: è a questo significato sincronico, non al diacronico, che Bichat fa riferimento quando definisce la vita come “l’insieme delle funzioni che resistono alla morte”.


Ora, che tipo di relazione è quella che lega la vita alla morte in questo senso sincronico? Su questo Bichat è esplicito: detta relazione va letta nei termini di uno sforzo di resistenza costante, un’opposizione dinamica che accompagna tutta la vita dell’organismo (con la quale coincide) e che questo deve porre in essere per far fronte a un’incessante pressione annichilente. Questa pressione ha due punti d’origine. Il primo è radicato nel cuore stesso del meccanicismo: la nostra “meravigliosa macchina”, ha in comune con tutte le altre macchine che “il modo stesso in cui i movimenti vengono eseguiti è ragione sufficiente perché risulti impedita la sua perpetuità: ogni movimento della vita prepara e predispone alla morte” (Encyclopédie, 1751-65, p. 722). Ma è sul secondo, pur certo non sconosciuto né di principio estraneo al meccanicismo, che Bichat vuole maggiormente richiamare l’attenzione: l’organismo non vive nel vuoto, bensì è circondato da altri corpi, viventi e non; è calato cioè in un reticolato di forze e attriti di cui costituisce un nodo. Oltreché dunque un attrito interno, fra le sue parti, l’organismo soffre un attrito esterno, con altri corpi: da qui l’insufficienza di ogni sguardo sul vivente che astragga il vivente stesso dall’ambiente di cui è parte. Il concetto di morte, nella sua accezione sincronica, rinvia così all’azione annichilente sull’organismo di forze tanto interne quanto esterne, la letalità delle quali risulta temporaneamente stemperata solo dalla capacità di reazione che l’organismo è in grado di opporre loro. Ma se fra gli agenti della morte figurano gli arredi stessi del mondo, allora l’idea chiave del meccanicismo cartesiano – l’idea secondo cui il luogo dell’usura dell’organismo è l’organismo stesso – dovrà essere ricollocata in una nuova topografia che metta dapprima adeguatamente a fuoco, rispettivamente, gli attriti di origine interna e quelli di origine esterna e che successivamente si ponga il problema del loro peso relativo.


Di quest’ampia reinterpretazione che Bichat opera, due sono gli aspetti che maggiormente rilevano ai fini della ricostruzione dell’idea moderna di morte. Un primo aspetto è costituito dallo slittamento del punto di fuga della morte dal centro verso i confini dell’organismo. La comprensione di questo punto e della sua portata passa attraverso l’osservazione cruciale intorno alle cause della morte e, più esattamente, all’incidenza relativa della morte naturale, che per Bichat si riduce aquella occasionata dal fisiologico esaurirsi della forza vitale dell’organismo, e della morte provocata da cause di ordine traumatico o patologico. Più comunemente che di vecchiaia, si muore per cause di natura traumatica o patologica, sicché la macchina animale non perisce in realtà che raramente per effetto del normale usurarsi dei suoi ingranaggi. La morte naturale è dunque in realtà poco più che un’aspirazione del corpo, un epilogo che, pur appunto naturale, viene pressoché regolarmente frustrato dall’agire delle forze ambientali – di ordine tanto naturale quanto sociale (Bichat, 1805, p. 147) – che costantemente insistono lungo il perimetro del corpo. Un secondo aspetto, strettamente connesso a questo primo, è la visione ambivalente, quando non apertamente negativa, dell’ambiente. È sufficiente far mente locale alle considerazioni appena svolte sulla frustrazione della morte naturale, oltreché alla definizione stessa che Bichat propone della vita, per comprendere come il modo di relazionarsi dell’organismo con l’ambiente sia interpretato da Bichat in termini essenzialmente difensivi. Ma se vivere è resistere, allora morire (salvo il caso della morte naturale) rappresenta non già lo spegnersi della vita, ma lasua sconfitta.


3. Fra due migrazioni: l’idea di morte che abitiamo

C’è forse del pretenzioso nel voler delineare un’idea moderna di morte. Il modo in cui ciascuno si relaziona con la coscienza della certezza della (propria) finitudine è il frutto della convergenza di una molteplicità di fattori di ordine scientifico, religioso, filosofico e, più in generale, culturale, ma anche – e non da ultimo – delle esperienze e della visione soggettiva che ciascuno matura di sé, degli altri, del mondo e dello stare al mondo. L’idea di morte – quando con tale espressione si intenda non una sterile astrazione statistica, bensì la forma di una relazione viva e personale con l’umanità che si è – costituisce pertanto qualcosa di tendenzialmente inafferrabile, che giocoforza si declina al plurale. A questa precauzione va aggiunto che il rifiuto di ogni spersonalizzazione dell’esperienza soggettiva del mondo, così come pure la resistenza dinanzi ad ogni riduzione del pensiero vivo e plurale a canoni definiti a prescindere dalla persona nella sua inafferrabile concretezza biografica e a questa imposti come criterio di giudizio (sia esso diagnostico o terapeutico), disegnano – mi pare – il confine invalicabile fra la spregiudicatezza di ogni pratica filosofica e la tensione normalizzante che caratterizza, di contro, l’operare dello psicologo. Sicché lo studio che precede non pretende in alcun modo incasellare le plurali declinazioni dell’idea di morte attorno a regolarità aventi valore comparativo, esplicativo ed orientativo; non va, cioè, oltre il tentativo di tratteggiare l’orizzonte condiviso all’interno del quale quella pluralità dei modi di rappresentare (a se stessi) la vita e la morte sorge e si esprime. L’idea èqui (solo) il vocabolario, non il discorso.


Fatta questa doverosa premessa possiamo assumere, almeno come ipotesi di lavoro, che l’orizzonte rappresentazionale che abitiamo sia disegnato da due grandi migrazioni dell’idea di morte, avvenute entrambe in seno alla – e ad opera della – medicina moderna. La prima e più antica, che trova lucida formulazione in Descartes, ha visto calare la morte dall’orizzonte religioso per installarsi nella macchina animale quale suo destino naturale ed immanente. La seconda, della quale Bichat plasma l’intuizione e che giungerà a compimento solo un secolo e mezzo più tardi, ha spinto il punto di fuga del morire dal centro verso le periferie del corpo, laddove però quello stesso destino, pur sempre oramai naturale ed immanente, tende a trascolorare in sconfitta.


Ora, quando ci si riferisca alla vita e alla morte non come oggettività universali, bensì come letto ed argini della soggettività umana singolare, questa duplice migrazione manifesta un soggetto storicamente nuovo: un soggetto che scopre di non poter (più) non essere libero di giocare a scacchi con la propria morte. Salvo che quell’uomo che con Descartes si era trovato a rivestire simultaneamente il ruolo di entrambi gli sfidanti – lo sguardo fisso dentro di sé, su di una scacchiera che è il suo stesso corpo, intento a governar pedine che sono i suoi stessi organi –, con Bichat ha dovuto infine avvertire fuori di sé l’ombra di un terzo giocatore, il quale non è nessun dio né ha personalità alcuna, ma che è tuttavia il vero maestro del gioco.


Se la morte che resta dopo il divorzio cartesiano è dissolta nel processo del morire così come il trapasso è stemperato nel punto di non ritorno, e se il sopraggiungere della morte cessa di essere pensato come marcatore visibile di un accadimento invisibile, allora il limite invalicabile che il mito di Asclepio aveva fissato nei prolegomeni ad ogni medicina futura decade ed estendere i confini dell’agire medico fino ad inscrivere la morte nell’agenda della cura non configura più hybris alcuna: diviene pensabile, e perfino doveroso per il medico, porre la questione della cura della morte (Encyclopédie, 1751-65, p. 726).


Per comprendere la portata storica dell’idea – prima ancora che della realtà – di cura della morte, occorre guardare alla storia lunga della medicina occidentale come un lungo processo incorniciato fra due divieti fondativi. Il primo è ben noto e sopravvive tutt’oggi nel giuramento ippocratico: è fatto divieto assoluto, al medico, di causare volontariamente la morte del paziente (principio di inviolabilità della vita). Il secondo, che significativamente è più lontano nel tempo e che rinvia alla fondazione mitica stessa della medicina, è invece avvolto nell’oblio: questo divieto esige che il medico non usi mai il suo sapere ed il suo potere per allontanare la morte (principio di inviolabilità della morte). Al tempo stesso in cui presenta la fondazione della medicina come arte di preservare la vita, il mito di Asclepio indica nella morte il limite invalicabile all’agire del medico. Narra Pindaro (Pitica III) che Apollo, dopo aver salvato Asclepio dal rogo liberandolo dal ventre cadaverico di sua madre, l’adultera Coronide, lo affida a Chirone perché lo allevi e gli insegni la medicina. Per Asclepio – che non è dio ma semidio – la morte – che è dominio del dio, mai del mortale – rappresenta un limite assoluto, col quale la sua arte non ha diritto alcuno di interferire. Ma “dal lucro anche saggezza avvincesi” (v. 54); cosicché quando Asclepio si lascerà convincere e, avido, resusciterà un morto, il fatto oltraggioso scatenerà l’ira funesta di Zeus, che lo ucciderà: “Dunque non agognare, o mia dolce anima, / Vita immortal, ma ciò ch’è dato esercita” (vv. 61-62). Il mito di Asclepio lascia trasparire qualcosa di cui la medicina arcaica, pur nella sua impotenza, è lucidamente cosciente: la cura è inseparabile dall’interferenza con il destino. Al di là dell’aspetto etico, la corruzione di Asclepio rivela che questi è sempre stato cosciente tanto del pericoloso conflitto che innerva la medicina, quanto del limite al quale il medico, sempre a un passo dal macchiarsi di hybris, deve sottostare. Questa doppia coscienza, però, suggerisce anche che il medico è (deve essere) fedele al dio prima e più che al malato.


Se, per un verso, l’apparizione esplicita, nella seconda metà del secolo XVIII, del concetto di cura della morte, rappresenta la cuspide simbolica di tutta la medicina occidentale moderna, per altro verso segna la lontananza massima del morire dalla biografia umana singolare. La rappresentazione della morte assume infatti una sfumatura cruciale: male da guarire e sconfitta da scongiurare, solo per quel principio di reazione che è la vita del singolo la morte costituisce la resa irreversibile, ché per la medicina, cioè in ultima istanza per la tecnica, la resa non è, almeno idealmente, che transitoria. Ma non vi è tecnologia dell’immortalità che prometta maggior vittoria di un incerto rinvio: le prime esperienze di rianimazione (presentate peraltro dai medici del tempo non come estremi tentativi di salvare la vita, bensì come la capacità della medicina di riportare in vita chi era già morto), finiranno paradossalmente per avvolgere la morte in un alone di profonda incertezza. Chiaramente visibile nell’ondata di terrore, fra tardo Settecento e prima metà dell’Ottocento, di essere sepolti vivi e nell’acceso dibattito intorno alla diagnosticabilità della morte, questa incertezza verrà parzialmente risolta solo nel 1968, quando cioè la Ad Hoc Committee istituita presso la Harvard Medical School revocherà l’antico meta-criterio oggettivo e descrittivo (empirico) di determinazione clinica della morte sostituendolo con uno convenzionale e normativo (etico).


Sulle orme di un destino comune a molti altri aspetti della realtà, la morte verrà con sempre maggior insistenza compresa sullo sfondo non già della natura, bensì della tecnica: si muore non quando è giunto il momento, ma quando non c’è più nulla da fare.


Conclusioni


Mi pare difficile sottovalutare l’impatto esistenziale delle profonde revisioni dell’idea di morte che la medicina ha spalmato, soprattutto durante il XX secolo, sull’immaginario individuale e collettivo. Nella misura in cui avremo cura di mantenere ben distinti il piano oggettivo da quello soggettivo, la scienza dalla vita, queste revisioni ci si mostreranno nell’atto di informare modi di essere – prima e più ancora che modi di intendere – che obliquamente attraversano le biografie di tutti noi.


Il lungo processo di revisione dell’idea di morte che ho tentato di ricostruire sulla scorta della duplice migrazione del punto di fuga del morire dal cielo al corpo e dal centro alla periferia del corpo stesso – questa lunga migrazione che, dal pulpito dell’arte che professa la difesa della vita, incrocia la più atavica delle umane paure –, sostiene una rappresentazione radicalmente disintegrante del sé, del mondo e dello stare al mondo; una rappresentazioneche guarda, insieme, al e dal confine sottile che ritaglia e oppone dentro e fuori, corpo e ambiente, io e mondo. Questo modo di pensare la morte incrocia e informa il modo più generale di intendere la cura di sé: se, come insegna Bichat, vivere è resistere alla pressione annichilente di un intorno ostile, allora la cura di sé andrà intesa sempre meno come manutenzione di una vita integrata nel, e aperta al, mondo, e sempre più come difesa dal mondo, sterilizzazione del perimetro vitale. Dal salutismo paranoico, che vede nella salute un fine e non già un mezzo, al mito eminentemente profilattico della sicurezza, basato sull’ossessiva anticipazione del rischio e sull’illusione della sua controllabilità; dall’istruzione ridotta a bagaglio di saperi tecnici la cui giustificazione ultima rinvia all’utilità degli stessi ad affrontare futuri minacciosi, all’ortopedizzazione normativa della quotidianità di milioni di persone (la cui individualità si fa consistente quasi solo nello scambio economico) quale risposta alla domanda sociale di protezione; dalla celebrazione ingenua della resilienza, alla rinuncia a vivere per far salva la vita: un soggetto educato a pensare la morte come qualcosa che procede da fuori, qualcosa che propriamente non è parte ma interruzione della vita, espone inevitabilmente se stesso a vivere l’affannosa deriva di un’esistenza astratta non solo dal mondo ma anche da sé.


Forse, il più nobili dei compiti che la pratica filosofica (chi altri?) possa assumere su di sé, è proprio quello di accompagnare lo sguardo affinché ritorni a vedere e a riconoscere gli argini, di aiutare il consultante (ed il filosofo stesso) a riadagiare il filo corto di ogni vita fra i due lunghi sonni che l’avvolgono e ai quali appartiene. In una stupenda riflessione sulla morte, Nozick avverte che, se ci è precluso l’eterno, è pur sempre in nostro potere assumerne la dignità: “dovremmo vivere come se un qualche aspetto della nostra vita e del nostro essere fossero eterni”.


Capisco l’impulso a restare aggrappati alla vita fino alla fine, però c’è un’altra strada che mi sembra più attraente. Alla fine di una vita piena, una persona che ancora possegga energia, lucidità e capacità di decisione potrebbe scegliere di rischiare seriamente la propria vita o di darla per un’altra persona o in vista di una causa nobile e decente. […] Usando la libertà che si conquista mediante la volontà di affrontare rischi, l’ingegno delle persone disegnerà nuove modalità di azione effettiva, che altri potranno emulare, individualmente o collettivamente. […] Non perdersi silenziosamente in quella benevola notte né ringhiare alla morte della luce bensì, approssimandosi la fine, rifulgere con il massimo splendore. (Nozick, 1989, p. 23)

Quando la vita, nuovamente cosciente di sé, non accetti (più) di risolversi in un astratto sopravvivere né di riflettersi nella resistenza a un mondo ostile e mortifero, la cura di sé, a difesa, tornerà ad essere cura del mondo – e viceversa.


* Articolo apparso su "Rivista Italiana di Counseling Filosofico", n. 13, dicembre 2020.

____________________ BIBLIOGRAFIA

Ariès P. (1975), Historia de la muerte en Occidente. Desde la Edad Media hasta nuestros días, Barcelona: El Acantilado (2000)

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